SABATO DELLA V SETTIMANA DI QUARESIMA - ANNO C
Lazzaro, vieni fuori!
Il racconto evangelico della risurrezione di Lazzaro è una pagina viva, intensa, pulsante. Non è una semplice cronaca di un evento miracoloso, né una fotografia in bianco e nero di ciò che accadde. È una narrazione di fede, costruita con sapienza, dove le parole e le azioni si intrecciano in una danza che coinvolge cuore e mente. Questa pagina si colloca nel cuore del Vangelo di Giovanni, fungendo da ponte tra la prima e la seconda parte, ed è densa di significati, simboli, provocazioni. Non si può ingabbiare questo racconto in un’unica interpretazione. Sarebbe come soffocare la vitalità del testo, come voler contenere il vento in un barattolo. È un racconto che va letto e riletto, lasciandolo parlare ogni volta in modo nuovo, personale, sorprendente. Non ci troviamo davanti a un resoconto oggettivo, ma a una testimonianza profonda del senso della vita di Gesù per la comunità dei credenti. Alcuni studiosi vedono in questo racconto un’anticipazione della risurrezione di Gesù, una sorta di preludio, quasi a dire che il Maestro non sarà prigioniero della morte. Altri leggono in questa pagina un tentativo di rispondere alle domande inquietanti dei primi cristiani: “Che ne è dei nostri morti? Dove vanno? Sono davvero perduti per sempre?” Il Vangelo risponde con forza: no, non finiscono nella tomba. In Cristo, Dio apre i sepolcri e dona una vita nuova. È la vita a vincere, sempre. Una promessa che non delude, un orizzonte che si apre sul mistero.
Ma c’è di più. Alcuni leggono queste parole come un appello universale: “Lazzaro, vieni fuori!” non è rivolto solo a un uomo morto duemila anni fa. È un grido che attraversa i secoli e ci raggiunge oggi. È la voce di Dio che ci chiama ad uscire dai nostri sepolcri interiori: la paura, l’egoismo, il cinismo, l’abitudine, la rassegnazione. Siamo spesso convinti di essere vivi, e invece siamo intrappolati in esistenze vuote, fasciati dalle bende della non-vita. Il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Ed è proprio questo il cuore del Vangelo: non siamo lasciati soli. Se ci decidiamo a rispondere alla chiamata, possiamo contare su una forza che non è solo nostra. Dio ci spinge, ci sostiene, ci solleva.
È interessante notare come i racconti di risurrezione non siano un’esclusiva del Nuovo Testamento. Già nei testi antichi, come quelli che narrano le gesta di Elia ed Eliseo, troviamo episodi simili. Ma ciò che accade con Gesù è una svolta radicale: non si tratta più solo di guarigioni straordinarie o di ritorni temporanei alla vita. In Lui, la risurrezione diventa definitiva, totale, promessa per tutti. Molti studiosi sostengono che questi racconti si siano evoluti nel tempo. Magari all’inizio si trattava del ricordo di un gesto potente, di un incontro che aveva ridato speranza. Poi, col passare del tempo e alla luce della risurrezione di Gesù, quei racconti si sono trasformati, caricandosi di significati nuovi. E questa trasformazione non ne sminuisce la verità, anzi: ne esalta la verità spirituale. In fondo, il messaggio è chiaro: in Gesù si rivela la forza di Dio che vince la morte. È Lui la strada, la verità, la vita. Basta fidarsi, affidarsi, lasciarsi raggiungere.
Un dettaglio bellissimo del racconto di Lazzaro è il coinvolgimento delle persone intorno: “Togliete la pietra”, “Liberatelo e lasciatelo andare”. Gesù non fa tutto da solo. Chiama altri a partecipare, ad essere operatori di risurrezione. Chiede mani che aiutino a sciogliere le bende, cuori che si lascino coinvolgere, occhi che vedano la vita dove tutti vedono la fine. Questo è uno degli insegnamenti più forti del racconto: ognuno di noi può diventare complice della vita, può contribuire a liberare chi è oppresso, schiacciato, dimenticato. A volte basta poco: una parola detta bene, una presenza che non giudica, un gesto gratuito. Gesù incontra le persone chiamandole per nome. Non le riduce a casi da curare o a numeri da contare. Le chiama, le ascolta, le guarda. E noi? Sappiamo ancora guardare negli occhi, pronunciare nomi, restituire dignità?
“Vieni fuori!” È forse una delle frasi più potenti del Vangelo, e forse anche una delle più vere per descrivere la sequela cristiana. Seguire Gesù significa uscire. Venire fuori da se stessi, dalle proprie chiusure, dalle proprie sicurezze. Significa camminare verso la libertà, ma una libertà che parte dal cuore, non solo dalle condizioni esterne. Certo, è un cammino difficile. La nostra vita è piena di sepolcri interiori. E non è raro che, anche dopo essere usciti, si senta la tentazione di tornare indietro, di richiudersi, di fasciarsi di nuovo. È per questo che la risurrezione non è mai un evento concluso, ma un processo continuo, una conversione quotidiana. Ogni giorno siamo chiamati a “venir fuori” di nuovo.
Il profeta Ezechiele, scrivendo dall’esilio, annunciava che Dio avrebbe aperto i sepolcri del suo popolo. Lo stesso annuncio vale oggi. Quel vento dello Spirito, che allora soffiava tra le ossa inaridite, oggi continua a soffiare nelle nostre vite. E ci invita a non rassegnarci. A non adattarci. A non vivere come prigionieri. C’è chi lotta per una società più giusta, chi si oppone alla guerra, chi nella Chiesa ha il coraggio di disobbedire a strutture oppressive. Tutti costoro ci testimoniano che è possibile uscire dai sepolcri. La Chiesa non è fatta di gerarchie che parlano di risurrezione ai funerali di stato, ma di donne e uomini liberi, figli e figlie di Dio che vivono da risorti, che respirano Vangelo. E allora sì, risurrezione fa rima con conversione. Non basta parlarne, bisogna percorrerla. Con tutti i rischi, le cadute, le fatiche del caso. Ma con la certezza che Dio aiuta, sempre.
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